Nel film “Freud – L’ultima analisi”, diretto da Matt Brown, assistiamo a un intrigante confronto fra due grandi pensatori del XX secolo, Sigmund Freud e C.S. Lewis. Il film si apre con una scritta che informa il pubblico che, poco prima della sua morte nel settembre del 1939, Freud ricevette la visita di un giovane assistente universitario.C.S. Lewis, già affermato docente di Lingua e Letteratura Inglese a Oxford, potrebbe non essere stato realmente presente, ma questo incontro diventa un pretesto per esplorare tensioni filosofiche profonde.
La narrazione è costruita in modo tale da presentare Freud come un simbolo della ragione e della scienza, mentre Lewis incarna la fede e la spiritualità. Questa dichotomia offre un terreno fertile per discutere il dilemma morale tra l’assertività della scienza e quella della religione. Il contesto in cui si svolge l’incontro è significativo: Londra, nei giorni immediatamente successivi all’invasione della Polonia da parte dei nazisti, momento storico che rappresenta una vera blitzkrieg, una guerra travolgente che ha segnato profondamente il Novecento.
Il regista, Brown, sceglie di dare vita a un’esperienza onirica, evocando l’immaginario legato ai sogni, elemento cardine del pensiero freudiano. La casa di Freud appare quasi come un non-luogo, uno spazio in cui le idee di entrambe le figure si scontrano e si confrontano, alla ricerca di un punto d’incontro umano. Tuttavia, il film sembra peccare di una certa superficialità, perdendo l’occasione di approfondire i temi trattati e di tratteggiare i personaggi con maggiore incisività.
Il personaggio di Anna Freud, figlia dello psicoanalista, viene presentato in una luce poco favorevole, subendo un’analisi che non riesce a trasmettere il conflitto esistente con il padre, che appare quasi come un dittatore nel loro rapporto. La mancanza di una vera introspezione riduce notevolmente il potenziale narrativo del film, rendendo le interazioni tra i personaggi piuttosto piatte e senza spessore.
“Freud – L’ultima analisi” rischia di cadere nel cliché di un film dagli accenti britannici molto rigidi, centrato più sulle interpretazioni di attori di fama come Anthony Hopkins e Matthew Goode, piuttosto che sulla trama e sullo sviluppo emotivo delle relazioni tra i personaggi. Hopkins, nei panni di Freud, porta sullo schermo un’interpretazione ricca e sfumata, ma il tono generale della regia manca di brio e dinamismo.
Inoltre, il film si affida a dialoghi retorici che servono principalmente a esaltare l’opera intellettuale di entrambi i protagonisti, senza però fare emergere una vera connessione emotiva tra le loro vite. Anche la relazione tra Anna e Dorothy Burlingham appare confusa e poco approfondita, lasciando lo spettatore con un senso di vuoto.
La sensazione di déjà-vu è palpabile, e il pensiero corre a opere precedenti che hanno affrontato la figura di Freud in modi più creativi e onirici, come La mamma di Freud di Remo Remotti, che mostrava in modo ironico ed efficace la complessità dell’uomo e del suo pensiero.
In conclusione, Freud – L’ultima analisi si presenta come un’opera con grandi aspirazioni ma che, a causa di una sceneggiatura debole e di una regia poco ispirata, lascia un certo rammarico. Nonostante le interpretazioni di alto livello dei protagonisti, la mancanza di conflitto e introspezione rende difficile coinvolgere completamente il pubblico in questa riflessione sull’esistenza umana e sulle sue molteplici sfaccettature.